U’ SCOGLIU DO ZITU E A ZITA

Sono Patrizia Chini. Scrivo racconti e poesie... passioni a cui ho potuto dedicarmi maggiormente da quando, smesso l’abito di maestra elementare, sono pensionata…. Amo anche il disegno, la pittura e la musica ma soprattutto i due nipotini con i quali gioco e a cui leggo favole.Racconto dedicato al “mio” mare
di Patrizia Chini (22 ottobre 2015)

Ogni estate, dopo il matrimonio, la località scelta come luogo di vacanza, è stata un piccolo paese della Sicilia meridionale in provincia di Agrigento, luogo natale di mio marito Giuseppe. I primi anni ci andavo controvoglia.

Mi dava fastidio la troppa luce, non sopportavo il caldo torrido, le persone sembrava ostentassero una superiorità che non condividevo e per questo mi erano sinceramente antipatiche. Ogni cosa, poi, lentamente, si vestì di significati diversi … o forse tutto è rimasto uguale e sono cambiata io. Fatto sta che, quando la diffidenza iniziale si è sciolta ed ho cominciato ad avvicinarmi senza timori a cose e persone, il soggiorno è diventato più gradevole.

Oggi amo quella terra arsa e le sue contrade polverose, il mare cristallino e, quando la mattina, raggiungiamo la spiaggia mi sembra di sentire ancora il profumo intenso dei gigli bianchi che, quarant’anni fa, crescevano sulle dune di quella sabbia finissima.

Era il mese di agosto del 1996 e quella mattina impiegai più del solito per raggiungere mio marito che mi aspettava nella nostra auto sotto casa per andare insieme in spiaggia mentre nostro figlio, poco più di un adolescente, rimaneva a dormire, visto che si coricava all’alba come tutti i ragazzi… e comunque era già qualche anno che giustamente preferiva scendere al mare da solo e raggiungere la sua comitiva.

Mi dilungavo sempre un po’ in chiacchiere con mia suocera che rimaneva sola a casa. “Che prepari oggi di buono? Noi mangiamo qualcosa al bar in spiaggia…” e sentivo che non le faceva proprio piacere il fatto che il figlio, dopo un anno di lontananza, preferisse rimanere al mare piuttosto che stare un po’ più con lei.

“Dai vieni anche tu” le proponevo ma lei si scherniva e rispondeva che non aveva più l’età per passeggiare in spiaggia e, accompagnando le parole con il gesto di una mano, mi ordinava: “Vai!”.

Non sono mai stata una nuotatrice provetta.

Rettifico: non sono mai stata una nuotatrice.

Amo il mare ma ho rispetto della sua grandezza e della sua potenza. Lo amo e lo temo allo stesso tempo e quest’ultimo sentimento mi ha sempre precluso la gioia di viverlo e apprezzarne tutta la bellezza e la forza di cui è ricco. È stato a causa di questo timore che poche volte sono stata in grado di nuotare nei tratti in cui i miei piedi non fossero sostenuti dal fondale quando, dopo un certo numero di bracciate a stile libero, mi fermavo a riprendere fiato. Senza la sabbia sotto i piedi, allora ma ancor di più oggi, comincio ad agitarmi e ad annaspare invocando aiuto finché non arriva qualcuno…

Quel giorno era tardi perciò decidemmo di non immergerci in acqua, ma di concederci una bella passeggiata.

Incontrammo subito una coppia di amici di mia cognata ma che erano diventati anche amici nostri, per una certa proprietà transitiva.

“Passeggiate?”. “Andiamo al faro!”. “Anche noi… andiamo insieme?”… e ci incamminammo.

È stupefacente la varietà di quella costa di mare il cui fiore all’occhiello è la scogliera di marna bianca, una roccia sedimentaria a grana fine formata da calcare e argilla. Scogliera modellata dal vento e dalla pioggia che l’hanno trasformata in una gradinata naturale chiamata, a ragione, “Scala dei Turchi”. Il suo bianco acceso risplende in mezzo ad una costa di tufo arenario, lo stesso materiale rossiccio che tagliato a mattoni viene usato per la costruzione di case ma anche dei bellissimi templi che s’innalzano in una valle di quel distretto agrigentino… appunto la valle dei Templi.

La sabbia è chiara e finissima. Il mare è disseminato di scogli scuri e alti di origine vulcanica: paradiso dei ragazzi per le loro esibizioni, tuffi dagli stili più improbabili e spericolati. Come se non bastasse, dopo essere rimasto fermo perché sostituito con uno più moderno, dal promontorio di Capo Rossello, campeggia nuovamente alto il faro con il suo lungo fascio di luce…

La passeggiata al faro, o meglio sotto il promontorio che lo ospita, è una delle mete più gettonate per l’inusuale spettacolo, che si gode a guardare a naso in su… una parete a picco sotto il faro. Una parete che si sta sgretolando e i cui grandi massi potrebbero venir giù da un momento all’altro tra lunghe scie grigie di argilla che la tappezzano a tratti.

Ѐ lì che torme di ragazzi si ricoprono di argilla e poi passeggiano lungo il litorale sicuri di richiamare l’attenzione.

La riva è sempre affollata di bagnanti e si deve procedere per due, perciò mi ritrovai sola con Franca al mio fianco e i nostri mariti po’ indietro. Ogni tanto si fermavano a ricordare le prodezze della gioventù con qualche paesano. A tratti ci giungevano le loro risate e, quando non li sentimmo più, non ce ne preoccupammo.

Arrivammo al porticciolo sotto il faro proprio nel momento in cui un amico di mio marito, Filippo, stava uscendo, solo, con il gommone per fare un “giro”.

“Dai, chiedigli se possiamo salire anche noi!” chiese pronta Franca.

Un sorriso e un “Naturalmente” in risposta ci catapultarono sul gommone. Io e Franca ci sistemammo una di fronte all’altra, Filippo mise una mano al timone e uscimmo dal porticciolo procedendo lentamente e solo quando fu possibile il motore rullò e partimmo… Ebbi una strana sensazione, quasi mi sembrò di non voler più uscire in mare, stavo per chiedere di riportarmi indietro ma guardai il cielo: era sereno e il sole splendeva alto! Non c’era alcun pericolo. Mi girai a guardare la spiaggia… dei nostri mariti non c’era traccia.

Mi rilassai e decisi di godermi quella gita in gommone.

Tra gli spruzzi e il vento che ci sferzava il viso per sentirci dovevamo urlare… ma poi cosa? La felicità era lì nell’assaporare quei momenti unici.

Arrivammo a Rocca Gucciarda, che è un isolotto a circa duecento metri da riva con fondali profondi, paradiso dei sub.

Questo isolotto, che in realtà è formato da due scogli legati da una sottile striscia di roccia, ha ispirato la leggenda in cui due giovani innamorati, per non separarsi come era stato loro ordinato, si tolsero la vita lanciandosi dalla punta di Capo Rossello. I due scogli sarebbero emersi proprio nel punto esatto dove i due avevano sacrificato la loro giovane vita e per questo Rocca Gucciarda è detta “U’ Scogliu do Zitu e a Zita”.

Filippo fermò il gommone perché è quasi un rito rimanere in contemplazione di quella meraviglia. Strano! Di solito ci sono gommoni e pedalò che gli girano intorno come api attorno al miele. In quel momento nessuno.

Senza preavviso, senza un cenno di intesa Franca si tuffò dal gommone… “Faccio una nuotata, dai vieni pure tu!”.

Sapevo che c’erano sette metri d’acqua e per arrivare, al sicuro, su Rocca Gucciarda una decina di metri, ma sfido chiunque, in grado di dare qualche bracciata e rimanere a galla, a non accettare l’invito… e non dico di Franca ma di quelle acque smeraldine, con la loro trasparenza che lascia vedere il fondale di grandi massi ricoperti di posidonia ed altre alghe. Mi affidavo alla presenza di Franca e del gommone… e sull’esperienza di Filippo praticamente nato in quelle acque.

Successe tutto nel giro di pochi secondi. Franca che non mi conosceva molto bene, visto che mi ero tuffata, pensò che fossi in grado di nuotare da sola e, in modo molto plateale con tanti spruzzi, raggiunse l’isolotto e ne cominciò il periplo nascondendosi alla mia vista.

Filippo che sicuramente aveva pensato le stesse cose di Franca, mentre diceva forte “Torno subito!” girò il timone e diresse altrove… sparendo anche lui dalla vista.

Mi vidi morta sul fondale.

Urlai ma Franca non poteva sentirmi e nemmeno Filippo. Ripensai alla mattina quando uscendo di casa avevo inciampato… e qualche giorno prima i tg regionali avevano diffuso la notizia, di avvistamenti di squali in quelle acque.

Mi giungeva una musica da lontano. Mi sembrava il ritmo incalzante del film “Lo squalo”.

Mi guardai intorno non c’erano pinne… mi stavo perdendo dietro fantasie ridicole. Dovevo trovare un modo per rimanere a galla, scegliere tra morire o tirare fuori il coraggio. Sapevo fare il morto a galla e pensai che in quel modo potevo evitare di farlo sul fondo.

Ogni tanto mi arrivava qualche onda che mi faceva traballare, stringevo i denti e cercavo di mantenere la calma. Ogni tanto tiravo su la testa per guardare verso riva. Mio marito, ne ero certa, aveva visto tutto e, conoscendo il terrore che mi attanagliava in quella situazione, stava morendo di paura come me. Di Franca e del gommone nemmeno l’ombra.

Se non arrivava qualcuno… quel pensiero mi avrebbe portato alla fine prima ancora di finire sul fondo. Davanti ai miei occhi passò la mia vita, poi pensai alle cose che ancora dovevo fare, a mio figlio ancora adolescente…

Il pensiero di mio figlio che poteva rimanere orfano mi dette un ultimo stimolo a resistere.

Strinsi i denti e gli occhi per non farci entrare l’acqua, ma questa cominciava ad entrare dal naso… Era finita, non mi restava che pregare. Aprii gli occhi per guardare l’ultima volta il cielo e… magia o miracolo non lo so, vidi la mia salvezza: un pedalò che fino a quel momento era stato dietro Rocca Gucciarda e che procedeva col suo ritmo traballante verso di me.

Mi piace pensare che a sostenermi fino a quel momento sia stato il coraggio e la forza “do Zitu e a Zita”.

About the author: Pascal McLee

La mia vita in due parole... Dopo aver frequentato le scuole superiori in Liguria, mi sono trasferito a Torino, dove ho seguito gli studi universitari di Ingegneria Elettronica al Politecnico. Ritornato in Liguria, attualmente il mio lavoro è in stretta correlazione con il web ed i computer. Mia moglie ed io viviamo nella verde Garlenda, in Liguria, provincia di Savona.